il caso Halaesa, la Sicilia che caccia chi la fa crescere
C’è un filo che lega la storia culturale della Sicilia ai suoi atti amministrativi più recenti. Ogni volta che un territorio tenta di trasformare un patrimonio in futuro, la burocrazia interviene non per regolarlo, ma per rallentarlo. A volte, per soffocarlo. Il caso del sito archeologico di Halaesa Arconidea, a Tusa, è l’ennesima prova.
Un Comune investe per dieci anni, un’Università straniera porta a termine una scoperta di rilevanza scientifica nazionale – un teatro ellenistico-romano, classificato come il quarto teatro in pietra della Sicilia – e la Regione, attraverso la Soprintendenza di Messina, decide di revocare la direzione scientifica a chi lo ha scoperto, la professoressa Michela Costanzi, dell’Università di Amiens. Non solo: la docente viene diffidata dall’accedere al sito. È la denuncia contenuta nel documento ufficiale del Comune di Tusa (Prot. n. 0018804 del 19/11/2025) prot. n. 18804 del 19.11.2025.
Questa scelta non ha giustificazioni pubbliche, non è motivata, non è spiegata. E soprattutto ignora che, come scritto nella nota del Comune, la presenza dell’Università francese non grava economicamente sul finanziamento dei lavori, essendo i costi scientifici a carico dell’istituzione francese, mentre quelli logistici sono sostenuti dal Comune di Tusa stesso. Scegliere di interrompere una collaborazione che non rappresenta alcun costo per la Regione significa solo una cosa: non è una decisione legata alle risorse. È una decisione politica.
È politicamente rilevante anche il fatto che la direzione scientifica verrebbe sostituita – si legge – con funzionari che in passato avevano negato l’esistenza stessa del teatro, considerandola “una mera invenzione del sindaco”. Il teatro però esiste, e lo si è trovato grazie a chi oggi si vuole allontanare. Qui non è in discussione solo una scelta tecnica: è in discussione il principio della responsabilità delle istituzioni verso la ricerca pubblica.
Il nodo della vicenda non è solo culturale. È civico. Se un’amministrazione locale finanzia con fondi propri uno scavo, se un’équipe internazionale lavora gratuitamente per la Sicilia, e se un patrimonio può generare sviluppo, turismo, lavoro, allora revocare senza motivazione è più di un errore: è un atto contro l’interesse pubblico.
Il sindaco di Tusa, Angelo Tudisca, annuncia che si recherà ogni giorno sul sito “per redigere il giornale di scavo, annotando chi sarà presente” (Prot. 0018804/2025) prot. n. 18804 del 19.11.2025. È un gesto istituzionale, non simbolico: mette a nudo una responsabilità. Chi blocca la ricerca si assume il peso di spiegare perché lo fa, a chi giova, e a quale visione culturale e amministrativa risponde.
In questo caso, non basta invocare il rispetto delle procedure. Le procedure non possono essere usate per cancellare ciò che dovrebbe essere valorizzato. Un bene archeologico non è proprietà di un ufficio, né un terreno di gioco per rivalità tra tecnici. Appartiene alla collettività.
Questa vicenda obbliga la Regione e il Ministero a un chiarimento pubblico. O si conferma la revoca motivandola con fatti, documenti e responsabilità scientifiche, o si ristabiliscono le condizioni di lavoro per chi la scoperta l’ha fatta. Non esistono alternative credibili.
La Sicilia non è chiamata a scegliere tra università italiane e straniere. È chiamata a scegliere tra una linea amministrativa che produce valore e una che genera danni culturali e danni economici. La differenza non è ideologica: è misurabile, verificabile, documentabile.
La lettera del Comune di Tusa non chiede fondi, non rivendica privilegi, non difende rendite. Chiede la cosa più elementare: che venga garantito ciò che già esiste e che funziona.
Le istituzioni hanno ora il compito di dare una risposta. Ma non una risposta qualsiasi: una risposta che definisca da quale parte decide di stare la Sicilia.
Se dalla parte della tutela, dello sviluppo e della collaborazione scientifica, o dalla parte della burocrazia che rifiuta ciò che non controlla.