Il dolore, la colpa, e la Palermo che ha smesso di educare
C’è una Palermo che marcia con le fiaccole e una che spara a vent’anni. Una che scrive “la vita è sacra” su uno striscione, e una che non ha mai visto la vita valere più di uno sguardo di sfida in una sera sbagliata. Sono due città che abitano lo stesso spazio, che si sfiorano ogni giorno, ma che non si incontrano mai. E il sangue versato a Monreale è lì a ricordarcelo.
Tre morti, due arrestati, un quartiere sotto shock. Ma non c’è nulla di improvviso in questa tragedia. La Palermo che uccide non nasce da un giorno all’altro. Cresce nell’abbandono, nell’ignoranza, nella fame di riconoscimento che solo le armi – o i follower – sembrano saper saziare. E cresce nel silenzio complice di chi ha smesso di credere che le periferie abbiano un futuro.
I ragazzi dello Zen non sono alieni. Sono figli di questa città. Non della mafia vecchio stile, ma di una nuova cultura della violenza che è fatta di assenza più che di potere: assenza dello Stato, della scuola, della famiglia, della comunità. E se oggi piangiamo tre giovani ammazzati, non possiamo farlo senza domandarci chi li ha lasciati soli mentre crescevano.
I genitori di Salvatore Calvaruso non chiedono sconti. Piangono anche loro, in silenzio. Perché non c’è solo la vergogna, c’è la perdita. “Nostro figlio è vivo, ma per noi è come se fosse morto.” Frase terribile, eppure esatta. Perché in fondo è proprio questo che accade quando una comunità fallisce: perde i suoi figli. Tutti. Anche quelli che restano in piedi.
E allora no, non basta una fiaccolata. Non basta un comunicato. Non basta la retorica del “mai più”. Se davvero vogliamo salvare Palermo da sé stessa, dobbiamo ricominciare a educare. A entrare nelle scuole, nelle case, nei vicoli. A rompere quella solitudine feroce in cui si cresce imparando che l’unica legge è quella del più armato.
È una battaglia lunga, faticosa, spesso ingrata. Ma è l’unica che valga la pena combattere. Perché ogni ragazzino che oggi impugna una pistola, ieri era un bambino che nessuno ha saputo ascoltare.