Monreale, la strage degli innocenti e il peso di un dolore che nessuno sa raccontare
Palermo si scopre ancora una volta madre ingrata e matrigna feroce. Le sue periferie covano rabbia, silenzi, rassegnazione e morte. È accaduto a Monreale, una sera di primavera, quando la banalità del male si è presentata su due ruote, ha impugnato una pistola e ha strappato la vita a tre ragazzi: Andrea Miceli, Massimo Pirozzo, Salvatore Turdo.
Ora, il cerchio si stringe. Sono due i giovani finiti in carcere: Salvatore Calvaruso, diciannove anni, accusato di aver fatto fuoco; e da ieri anche Samuel Acquisto, appena diciottenne, fermato per concorso in strage. I carabinieri lo hanno identificato come l’istigatore, colui che quella sera avrebbe condotto la Bmw GS, immortalata dalle telecamere, mentre sul sellino posteriore Calvaruso apriva il fuoco in mezzo alla gente.
Entrambi vengono dallo Zen, quartiere dove la legalità è una parola scritta in alto, sui muri, ma mai arrivata davvero in fondo ai cortili. Acquisto non è un nome qualunque. È nipote di Michele Acquisto, condannato a oltre nove anni nel processo Addiopizzo 5 per mafia ed estorsione. E anche lui, Samuel, aveva intrapreso la strada della boxe, come se i guantoni potessero educare ciò che la scuola e lo Stato hanno dimenticato.
Davanti agli investigatori, accompagnato dal suo avvocato Riccardo Bellotta, Acquisto ha confermato la presenza a Monreale la sera della sparatoria. Ma ha parlato male. Parole incerte, vaghe, spezzate. Frasi contraddittorie che i pm Luisa Vittoria Campanile e Felice De Benedittis definiscono “illogiche”. Intanto si cerca ancora la pistola. Intanto, altre quattro persone sarebbero coinvolte.
Mentre gli atti si accumulano sui tavoli della Procura, il dramma si consuma anche nelle case. Non solo in quelle che piangono tre figli, ma anche in quella dove un figlio è ancora vivo, ma per la famiglia è come se fosse morto. Perché niente sarà più come prima.
Daniela Di Fiore, madre di Salvatore Calvaruso, prova a raccontarlo. Il marito, Giancarlo, non ce la fa. Siede in silenzio, gli occhi lucidi, le mani intrecciate alle sue. Attorno a loro, la sorella di Salvatore e un cugino. Tutti stretti, come si fa quando manca l’aria.
“Salvo ha sbagliato – dice la madre – ed è giusto che si prenda le sue responsabilità. Ma è mio figlio. E io sono distrutta. Come madre, come donna, come essere umano”. Non cerca comprensione. Non osa paragonare il proprio dolore a quello delle famiglie delle vittime. Ma lo dice chiaramente: “Anche noi soffriamo. Anche se nostro figlio è vivo, noi lo abbiamo perso. Perché questa tragedia ha travolto anche noi”.
Lo Zen, intanto, li ha espulsi. Minacce di morte sui social, messaggi che evocano bombe sotto casa e vendette sulla figlia piccola. “Abbiamo lasciato tutto – racconta Daniela – ma quelle parole restano scolpite dentro”.
E mentre la città cerca di metabolizzare l’orrore, le sue viscere reagiscono. Il 4 maggio, da piazza Marina alle strade del centro storico, una fiaccolata silenziosa ha cercato di rimettere al centro il valore della vita. Dietro lo striscione “Non uccidere. La vita è sacra”, hanno marciato 17 parrocchie e sei associazioni civiche. C’erano i ragazzi, gli educatori, i parroci. Assenti le scuse, presenti i passi.
Tra loro anche le realtà che ogni giorno presidiano i quartieri popolari: Vivi Ballarò, Identità Giovane, Oratorio Vivo, Idea e Azione, comitato piazza Magione, comitato Kalsa. Tutti uniti da una convinzione chiara: la deriva è culturale, prima ancora che criminale. In certi quartieri si cresce senza padri, senza scelte, senza sogni. E a diciotto anni si spara per gioco, per esistere, per sentirsi qualcuno.
La sera prima, allo Zen, nella chiesa di San Filippo Neri, alla veglia erano in pochi. Pochi sguardi bassi, poca voce. Ma stavolta la città ha risposto. Forse tardi, forse non abbastanza. Ma ha detto: basta.
Tre morti, due arrestati, decine di vite devastate. Ma la verità più amara è che tutto questo era annunciato. La cronaca non ha fatto altro che confermare ciò che le scuole, i centri sociali, i parroci denunciano da anni: l’educazione è l’unica arma che non spara. Eppure, è quella che manca di più.