Quando la mafia sfidava la giustizia: un secolo di processi dimenticati

di Salvo Lapietra
30/04/2025

Nel nostro Paese, si è parlato tanto di mafia e troppo spesso di antimafia, ma raramente si è guardato con occhio lucido e storico alla lunga vicenda del contrasto giudiziario alle organizzazioni mafiose. Il libro curato da Antonino Blando, storico, e Costantino Visconti, giurista, entrambi docenti all’Università di Palermo, Il contrasto alla mafia siciliana dal secondo Ottocento a oggi (FrancoAngeli), riempie questo vuoto con un’analisi documentata e sorprendente.

Il volume ricostruisce l’evoluzione delle strategie repressive dello Stato italiano dalla fine dell’Ottocento fino alla nascita del reato di associazione mafiosa nel 1982. E lo fa con uno sguardo critico: non esaltando i momenti di gloria, ma interrogando anche le zone grigie della giustizia, tra inerzie, collusioni, vuoti normativi e sconfitte taciute.

Tra le scoperte più clamorose c’è quella relativa a un maxiprocesso celebrato durante il fascismo contro 191 imputati appartenenti alle cosche dell’Agro palermitano. Era il 1938, e il codice Rocco appena varato stava per essere “testato” proprio contro la mafia. Il processo, dimenticato dalla storiografia e dalla memoria pubblica, anticipa in modo impressionante il metodo e i limiti che riaffioreranno nei maxiprocessi degli anni Ottanta. Quelle carte, conservate all’Archivio di Stato di Palermo, restituiscono una stagione in cui – nonostante la retorica di regime – la mafia era tutt’altro che debellata.

Ma il libro non si ferma al recupero d’archivio. Analizza con rigore il nodo cruciale: la difficoltà, giuridica e culturale, di considerare la mafia come una vera associazione criminale punibile ai sensi del codice penale. Da Pitrè a Cesare Mori, da avvocati come Giuseppe Mario Puglia ai magistrati come Giampietro o Lo Schiavo, il dibattito giuridico fu acceso e non privo di ambiguità. L’idea che il mafioso fosse più un “tipo sociale” che un criminale associato contribuì per decenni a limitare l’azione repressiva.

Il pregio di quest’opera è quello di offrire una visione lunga e laica: non c’è compiacimento né autoassoluzione. Il diritto penale, emerge chiaramente, è stato spesso in ritardo rispetto alla realtà del crimine organizzato. Solo nel 1982, dopo l’assassinio di Pio La Torre e del generale Dalla Chiesa, lo Stato si è dotato di una norma realmente incisiva, l’articolo 416 bis. Ma anche quella legge – ricordano gli autori – ha avuto bisogno di investigatori competenti e collaboratori di giustizia per essere davvero efficace.

In un tempo in cui il termine “antimafia” è talvolta svuotato di senso o brandito come etichetta politica, questo libro invita a ritornare ai fatti, ai documenti, alla complessità del passato. Un esercizio di memoria e di responsabilità civile.

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