Vincenzo Nibali: “La bici mi ha salvato. Messina? u megghiu postu nto munnu”

di Salvo Lapietra
03/05/2025

Era un carusu dannificu, un ragazzino che attirava guai come un parafulmine. Vincenzo Nibali, il messinese che ha scritto pagine indelebili del ciclismo mondiale, si racconta con sincerità. «Una vetrata pericolante? La tiravo giù a sassate. Ho fatto esplodere le cassette delle lettere del quartiere Boccetta con i petardi, ho rischiato di schiantarmi con la macchina a pedali. Un giorno ho pure lanciato un motorino contro un muro, mancava solo una passante per farla grossa». Cresciuto in una realtà difficile, tra i pericoli della strada e il rischio concreto di smarrirsi, Nibali deve tutto a due cose: a suo padre e alla bicicletta.

Vincenzo Nibali si racconta al Corriere della Sera con la sincerità di chi ha scalato molto più delle montagne. Dall’infanzia turbolenta a Messina fino ai trionfi nei grandi Giri, lo Squalo dello Stretto ripercorre la sua vita tra salite, scelte difficili e ritorni alle radici. Una storia di fatica, riscatto e libertà.

Nato nel 1984, oggi Vincenzo Nibali è tra i ciclisti italiani più titolati della storia. Vincitore di tutti e tre i grandi Giri — due volte il Giro d’Italia — e di due Classiche Monumento, ha lasciato un’impronta profonda nello sport. Ma il suo percorso non è stato lineare. «Messina non era una città mafiosa, ma negli anni Novanta qualche mio compagno veniva a scuola con la pistola nello zaino. Dopo aver letto della sparatoria di Monreale ho pensato spesso a quanto sia stretto il bivio tra una strada e l’altra».

Anche la sua famiglia non è rimasta immune alle intimidazioni. «La cartoleria dei miei genitori subì minacce. Pizzini, una bottiglia di benzina fatta brillare dietro la serranda, la casa messa a soqquadro. Ma i miei hanno sempre reagito a testa alta, con la schiena dritta».

La bici entra nella sua vita a dodici anni, in salita: da Messina verso il santuario di Dinnammare, poi Novara di Sicilia, l’Etna. «Mi piaceva l’oggetto, mi piaceva viaggiare, mi piaceva vincere. Partivamo la domenica con l’ammiraglia della Cicli Molonia. Ogni volta che il traghetto attraccava a Villa San Giovanni, il signor Molonia diceva “’rrivammu in Italia” e noi ridevamo».

La Sicilia gli andava stretta. A quindici anni vince una corsa a Siena e decide di non tornare. «Amo la mia terra, ma non ho mai provato nostalgia. Ero un ragazzo poco affettuoso, non cercavo il contatto fisico, e forse questa freddezza mi ha aiutato nel distacco».

I suoi genitori gli lasciarono una frase decisiva: “Se ti impongono scelte sbagliate, torna. Qui troverai sempre noi e un lavoro.” In anni in cui il doping minava il ciclismo, quelle parole furono un’àncora: «Mi hanno aiutato a scegliere la strada giusta. Il ragazzino dannificu era svanito».

La vita da emigrato in Toscana, a Mastromarco di Lamporecchio, fu dura: sveglia alle sei, bus per Empoli, scuola e allenamenti. Ma c’erano persone che lo sostennero, come Carlo Franceschi e Bruno Malucchi. «Molti siciliani erano lì, ma sono rimasto solo io».

Per Nibali, restare al Sud non è una sconfitta, «lo è tornare se hai fallito. Chi riesce viene celebrato, chi rientra a testa bassa è guardato con scorno: “Chi sapi chi vulia fari…”».

La sua carriera inizia con il botto: alla Liegi-Bastogne-Liegi arriva ultimo, ma impara. Al Giro, dopo un terzo posto nel 2010 e un secondo nel 2011, trionfa nel 2013. Ma anche nella vittoria, non si lasciava andare. «Consideravo vincere normale. Forse la mia trasformazione interiore mi ha lasciato sempre col freno a mano tirato, tranne in bici».

Leonardo Sciascia scriveva: “Credo nei siciliani che parlano poco, che si rodono dentro e soffrono.” Nibali si riconosce: «Non parlavo quasi mai, nemmeno sotto tortura. Vivevo in una bolla, pensavo solo alla bici».

Il Tour de France vinto nel 2014 è il suo apice, ma anche l’inizio di un periodo soffocante. «Popolarità, richieste, pressioni. Volevamo solo sparire. Solo dopo il ritiro ho cominciato a vivere davvero».

Ha perso una Liegi per colpa di un corridore poi risultato dopato, e alla Vuelta rischiò di vedersi beffato da un altro poi radiato. «Quanto ho perso per il doping? Probabilmente tanto. Ma non mi sono mai dopato, mai pensato di farlo. Mi hanno controllato milioni di volte. Possono testarmi anche tra cent’anni».

Ha vissuto due anni della sua vita in ritiro sul Teide, con compagni diventati fratelli. «Lì si diventava un corpo solo. Sapevamo tutto l’uno dell’altro, in corsa bastava uno sguardo».

Nel 2016 perse un oro olimpico ormai vinto, cadendo in una curva dissestata. «Ho rischiato per andare più forte. Colpa mia. Succede».

Oggi, a due anni dal ritiro, Nibali viaggia. «Ad aprile ho portato le bambine, Emma e Miriam, a conoscere la Sicilia: Cefalù, la Valle dei Templi, Piazza Armerina. Tornando, siamo passati dal Museo Regionale di Messina. Emma mi ha chiesto cosa ci fosse. “C’è Antonello”, le ho detto, “un gigante della storia dell’arte.” Quando vedi Messina attraverso Antonello o le foreste dei Peloritani, capisci che è davvero u megghiu postu nto munnu».

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