“Il suino nero dei Nebrodi non esiste”

di Salvo Lapietra
19/01/2017

PALERMO – “Il suino nero dei Nebrodi? Giuridicamente e tecnicamente non esiste. Esiste il suino nero siciliano”. Giuseppe Messina, agronomo, esperto in cooperative e pianificazione territoriale, funzionario del ministero Sviluppo economico e presidente nazionale dell’Alni (Associazione latte nobile italiano), non è tipo da girare attorno alle cose. Al tema ha dedicato il libro Un progetto di sviluppo locale. Dal suino nero siciliano alla salciccia tradizionale di Palazzolo Acreide. Una storia lunga 2664 anni, edito da Cultura Nova che, attraverso ricerche di vario tipo, va alle origini di questa razza: nel volume si ritrovano le tesi di Messina sul suino e sulla strada che deve seguire lo sviluppo locale. Un lavoro fatto anche per documentare le origini della salsiccia tradizionale di  Palazzolo Acreide, che è stata recentemente riconosciuta come presidio Slow Food.

Partiamo dall’inizio. Come fa a dire che il Suino nero dei Nebrodi non esiste?

Non lo dico io. Lo dice un decreto del ministero dell’Agricoltura del 2001 che riconosce solo il suino nero siciliano. Che poi alcuni abbiano voluto insistere sul suino nero dei Nebrodi è un altro discorso. Il risultato però è che hanno favorito solo le industrie del Nord. E poi c’è la storia.

In che senso?

La nostra ricostruzione storica, documentata, ci dice che furono i greci, in particolare i Corinzi, ad allevare in modo evidente il suino nero e quando i siracusani fondarono nel 663 a.C. la subcolonia di Akrai (che sorgeva nei pressi dell’attuale Palazzolo Acreide ndr) sono stati individuati ben tre ambienti con altari adibiti ai sacrifici di animali, porcellini in particolare, praticati soprattutto durante le Tesmoforie. Ancora oggi in questi ambienti si possono rinvenire resti di mascelle e osa di suino. Un vaso è stato rinvenuto nel 1817 sempre ad Akrai che rappresenta due sacrificatori che immolano un suino. Noi abbiamo rilevato da studi e documentazione che nel 1600 l’allevamento del suino nero era particolarmente presente negli Iblei e a Palazzolo in modo particolare dove si praticava anche un largo commercio di tartufo nero rinvenuto dagli stessi suini. E ciò è avvenuto fino agli anni Cinquanta del secolo scorso quando l’allevamento è quasi scomparso e sostituito dalle razze bianche mentre l’allevamento allo stato brado si sviluppava sui Nebrodi e sulle Madonie. Abbiamo anche rilevato che negli anni 20 del secolo scorso sono stati fatti esperimenti di miglioramento genetico con la razza Casertana. Un tentativo di migliorare il suino nero siciliano che aveva una considerevole massa di grasso a discapito del muscolo. Esperimenti fatti sempre a Palazzolo con molti limiti visto che i livelli di conoscenza scientifica non erano quelli di oggi: il Dna è stato scoperto solo nel 1952.

Stando così le cose è comunque possibile chiedere la Dop per i prodotti da suino nero dei Nebrodi?

No, non si può fare per il semplice motivo che non esiste il suino nero dei Nebrodi. C’è chi si è appassionato alla storia di un suino nero dei Nebrodi negando la realtà. Quello dei Nebrodi non è molto diverso da quello dell’Etna e di altri per il semplice fatto che sono tutti suini neri siciliani. Ma io mi chiedo…

Prego.

Come si poteva pensare di fare un’operazione così acefala? Io non avevo l’interesse a provare che il suino nero viene da Palazzolo dovevo sostenere e provare che la salsiccia tradizionale di Palazzolo che si prepara da alcuni secoli con la carne del Suno nero siciliano e che tale preparazione è intimamente ed indissolubilmente legata all’allevamento del Suino nero siciliano e che fa parte della storia e della tradizione di questo paese. Ma i documenti parlano chiaro.

Questo lavoro, intanto, ha ricadute economiche indiscutibili.

Ma certo. Il Presidio Slow Food è stato un successo che è andato oltre ogni aspettativa più rosea. A Palazzolo è stato fatto un accordo, direi storico, tra allevatori, macellerie e ristoratori con cui intanto è stato fissato il prezzo da riconoscere agli allevatori: 4,50 euro più iva. Ed è stato fissato il prezzo della salsiccia: fresca a 12 euro al chilo, secca a 19 euro al chilo mentre per i ristoratori pagano 10 euro/kg per la salsiccia fresca e 17 per quella secca. Ma è stato fissato soprattutto un principio: il valore aggiunto deve andare maggiormente a chi alleva. L’allevatore lavora un anno ed è a lui che deve andare il valore aggiunto maggiore. E’ una questione di primaria importanza se noi pensiamo che questa regione deve puntare sull’agroalimentare. Oggi la situazione è drammatica. E lo sa perché?

Perché?

L’autoapprovvigionamento alimentare è precipitato al 20 per cento significa che l’80% di quello che consumiamo viene da fuori. E tutto ciò in una regione così vasta. Questo deve finire. Io mi chiedo e chiedo a lei: i Gal i soggetti pubblici sul territorio per chi lavorano? Quali interessi sostengono? Bisogna agevolare i consumi dei nostri prodotti . E pensare che c’è anche una legge.

Che legge?

Una norma regionale, la legge 20/2005 (art.18), secondo la quale scuole, ospedali, mense pubbliche e così via devono essere obbligatoriamente rifornite con i prodotti locali, possibilmente bio, dop, ecc. ma comunque tutti senza OGM. Le faccio un esempio: se così fosse l’intera produzione di ragusano Dop non basterebbe a soddisfare la domanda. E così via per tanti altri prodotti. Applicare questa legge significa sviluppare l’economia dell’isola, creare nuove aziende e quindi occupazione giovanile e sostenere l’intero sistema agricolo regionale. Noi abbiamo un ritardo che potrebbe essere risolto con gli strumenti che abbiamo. E allora perché non farlo?

Perché?

A me sembra che hanno messo in piedi un sistema che ha portato la Sicilia a essere una specie di Far West con una regione con l’87% del territorio a rischio desertificazione. La Sicilia è diventata un territorio di conquista dove il fabbisogno in carne è soddisfatto per il 20% e quello in latte per il 25%. Sembra incredibile ma è in questo incubo che è piombata l’isola Ma la politica si rende conto di  dove stiamo andando? Quale politica agraria abbiamo avuto negli ultimi quarant’anni? A chi è giovato tutto questo?

Qual è la sua proposta?

Il punto oggi è come uscire da questo mare di merda almeno con le unghie pulite. Perché abbiamo una responsabilità sociale nei confronti delle giovani generazioni. Siamo letteralmente affogati dai soldi ma non li sappiamo usare perché il nostro gap vero è culturale non è economico. Occorre quindi riconsiderare alla base la politica agraria dell’isola in direzione dei bisogni dei consumatori, dell’ambiente e degli interessi di chi la terra la lavora. Ma su questo occorrerebbe dedicare uno specifico incontro.

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