Elogio della fatica che sconfigge il bisogno, la paura e i falsi miti

di Luciano Armeli
27/10/2020

E poi arriva una mail. Un file. Me lo ha inviato Nino, Nino Amadore, il giornalista. Senza avviso. Senza quasi entusiasmo. Nessuna parola. Con quel suo solito modo di fare che attinge alla riservatezza, al dietro le quinte, al “punta di piedi”.

Porta con sé un nome strano quel file: L’uomo che parlava alle capre e altre cose così. Questo il titolo del suo ultimo libro, cui si aggiunge anche un sottotitolo. Storie minime di Sicilia e non solo. Un titolo insolito per un libro e per l’autore che è abituato a cose più delicate, a scrivere di zona grigia e di economia, di colletti bianchi e di business planetari, di torbido e di hub, di collusi e di finanza.

Di tutti i libri che ho letto di Nino, L’uomo che parlava alle capre e altre cose così (che potete, se volete, acquistare su Amazon), a mio avviso, è quello delle notti insonni, non tanto per il contenuto in alcune parti sempre molto pungente com’è nel suo stile, ma per lo tsunami emotivo che sta alla base di una stesura che muove da molto lontano e che affonda le sue radici in un borgo abitato adesso da “fantasmi” veri: i valori ereditati da un contadino, il padre di Nino, che fungono da paracadute e incoraggiamento costante dinanzi alle storture della vita, i voltafaccia, i fognanti atteggiamenti non solo di un mondo coabitato da criminali, ma anche gravido di insidie e pugnalate che giungono soprattutto da un fuoco solo apparentemente amico.

Nino, che da bambino si vergognava perché a scuola portava per la merenda il pane di casa con la marmellata fatta dalla madre, mentre i compagni portavano già le brioche o il panino con la Nutella, contrappone al mondo reale ma meschino e superficiale di oggi, quello ormai perduto dell’agricoltura eroica nebroidea dove i contadini piantavano vitigni su terreni dove un tempo non sarebbe cresciuto forse nemmeno un alberello di ginestra, dove si alzavano terrapieni in coste scoscese.

Una metafora che dice tanto, tutto, forse dipinge pure … e dipinge una Sicilia che ha perso l’abitudine alla fatica, al lavoro, al metodo. Ha perso la durezza della mietitura del grano con la falce, l’esser piegato sotto il sole con il dolore che ti spacca la schiena. Una Sicilia che ha smarrito le origini, le radici, la tradizione, il sacrificio e la meritocrazia.

L’autore, e non è il solo, non respira più l’atmosfera della sua infanzia, della sua adolescenza. Respira un mondo inquinato, putrido, a volte anche nelle sue parti migliori, cui contrappone gli ultimi baluardi valoriali e per certi aspetti, oggi, rivoluzionari, in controtendenza, di cui ne è esempio l’uomo che parla alle capre, metafora di chi non soccombe, di chi non ci sta, di chi non aspetta redditi di cittadinanza, ma attiva la creatività, la laboriosità e chiama per nome asini, scrofe, cavalli. E lo fa con la schiena dritta, simbolo della Sicilia che trasuda ancora gli insegnamenti degli avi, degli anziani che hanno svelato i trucchi del mestiere, di Turiddu Carnevale che con la madre Francesca ha esportato, nell’era del Covid, la solidarietà verso chi versa in condizione di difficoltà.

Pochi esempi, quelli citati da Nino che muovono in lungo e in largo in una terra che ha esportato maestranze in tutti i continenti, necessari per continuare a sperare e, soprattutto, sopravvivere laddove serpeggia ovunque quel sistema che a ragione vorrei definire “sistema-Escobar”, con il chiaro riferimento al re dei Narcos di Medellin, Pablo Escobar, e a quell’apparato di corruzione, collusione, doppiogiochisti, ipocriti, auto-referenziati che si è annidato globalmente ovunque, soprattutto nelle trincee dove dovrebbe, per ruolo, per divisa, per istituzione, per toga, serpeggiare il bene.

Giornalismo compreso!

E poi c’è la storia del poliziotto gentile, Tiziano Granata e del suo amico-collega, Rino Todaro, prematuramente scomparsi e risucchiati nel vortice dei misteri e della guerra dell’antimafia in una terra inquinata, non solo sotto ma anche sopra. Soprattutto sopra: i Nebrodi.

Ed è alla conclusione finale che Nino affida una temibile verità estendibile a tutte le cose umane e anch’essa suggerita dalla tradizione: U lupu di malacoscenza chiddu chi faci pensa”.

È in questa regola aurea siciliana che si annida il male dell’isola e non solo. Nino lo sa!

E sa pure che i “lupi”, prima o poi, fanno sempre una brutta fine.

Ci sono ancora libri che attendono di essere scritti. E con Nino, questo, ce lo siamo ricordati a vicenda. Se dovessimo dimenticarlo nuovamente, a rammentarlo sarà:

L’uomo che parlava alle capre e altre cose così.

Grazie giornalista “povero” e “abusivo” per dirla alla Siani.

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