Musica d’autore e stupore: Smiriglia e gli “Amanti, Santi e Naviganti”

di Emanuela Raimondi
27/02/2022

Quando la musica popolare incontra l’espressione artistica di un sognatore con occhi e cuore ben puntati sulla propria terra, nasce un disco come quello di Antonio Smiriglia. Un viaggio spazio-temporale dell’anima, una commistione fra diversi generi musicali, una sperimentazione che diventa racconto, storia, innovazione.

C’ha pensato lui, cantautore e musicista 45enne di Galati Mamertino, personalità affermata nel panorama della musica siciliana d’autore, a riscoprire in una nuova veste questa terra – “bella e maliditta” (maledetta) come la definisce lui stesso – piena di suggestioni, pugni e carezze. Il suo ultimo album da solista, Amanti, Santi e Naviganti, è un palcoscenico di sensazioni, atmosfere e colori musicali e testuali, dove l’uso della lingua siciliana si fa veicolo di memoria, di richiamo e magnetismo.

Anticipato dal nuovo singolo “Donna Gintili” in featuring con Oriana Civile, il disco è uscito lo scorso 19 febbraio in tutte le piattaforme e store digitali. È il quarto lavoro discografico per Smiriglia, dopo “Ventu d’amuri” (con i Discanto Siculo, di cui è stato la principale voce e autore di testi e musiche), “Vinni a cantare” e “Susiti bedda” (con i Cantori dei Nebrodi). Numerose le sue collaborazioni, tra cui quelle con il maestro Ambrogio Sparagna & l’Orchestra Popolare Italiana, con cui ha aperto diversi concerti all’Auditorium Parco della Musica di Roma. Nel 2014 ha l’occasione di conoscere il Maestro Franco Battiato, da cui viene invitato a interpretare, insieme ai Cantori della Tradizione di Galati Mamertino e ai Monaci tibetani “U Cuntu”, brano devozionale composto dallo stesso Battiato in occasione della presentazione del suo docufilm, tratto dal libro “Attraverso il bardo: sguardi sull’aldilà”.

Amanti, santi e naviganti”, edito da Opensound music Publishing e Aventino Music, è stato registrato negli studi di Giuseppe Faranda a Brolo e contiene 9 brani. Gli arrangiamenti sono stati curati dai musicisti Fabio Sodano e Tanino Lazzaro e, sotto forma di featuring, hanno partecipato all’album anche Oriana Civile (voce), Nino Milia (chitarra classica), Calogero Emanuele (mandolino) e Marco Corrao (elettronica), insieme al resto dei musicisti coinvolti – Se­ba­stia­no Mon­ta­gna (chi­tar­ra clas­si­ca), So­cra­te Ve­ro­na (bou­zou­ki, vio­li­no), Pino Ga­ru­fi (bas­so, con­trab­bas­so), Ste­fa­no Sgrò (bat­te­ria) e Mi­che­le Pic­cio­ne (tam­bu­ri a cor­ni­ce, mar­ran­za­no).

Abbiamo chiacchierato con Antonio Smiriglia, per scoprire i retroscena di questo nuovo disco, evocativo di una Sicilia d’altri tempi, ma che trascina con eleganza, incanto e autenticità, in una contemporaneità fatta di incontri, spiritualità, devozione e bellezza senza tempo.

Mi racconti chi è Antonio Smiriglia e com’è arrivato fin qui?

“Antonio Smiriglia già dall’età di 8 anni si nutriva di musica. Ho sempre fatto musica, sin da piccolo ho partecipato ad alcuni festival canori, complice il fatto che in famiglia c’era mio zio che cantava. Da lì è nata sicuramente un’influenza. Poi in un’occasione, mentre facevo il militare a Napoli, mi è capitato di sentire la Nuo­va Com­pa­gnia di Can­to Po­po­la­re, ho ascoltato ‘La Gatta Cenerentola’, una favola in musica di Roberto De Simone, e me ne sono innamorato. Il mio cantare in dialetto siciliano nasce dall’aver ascoltato molto la Nuova Compagnia di Canto Popolare, Eugenio Bennato, Enzo Avitabile, che proponevano un tipo di musica nella loro lingua di appartenenza. Nella lingua siciliana riesco meglio a trasmettere i miei sentimenti.

Da qui tanta formazione, produzioni di album, fino ad arrivare a questo ultimo lavoro che segna la mia maturità artistica. Antonio Smiriglia è un amante della musica, vive per la musica, ha fatto tante rinunce per questo. È sempre stato appassionato della canzone popolare. Avrebbe potuto cantare in italiano, sarebbe potuto andare via, ma è rimasto ancorato alla sua terra. Le lotte si fanno sul posto e quando si rimane e si riesce, è sempre più bello. Con caparbietà e perseveranza, con passione, ho iniziato a fare ricerca di canti del territorio, ho creato questa compagine dei Cantori…questo è Antonio Smiriglia: la musica è la mia vita.”

“Amanti, Santi e Naviganti” è il titolo del tuo ultimo lavoro discografico. Perché la scelta di questi tre aggettivi?

“L’intento è quello di colpire, di segnare. ‘Amanti, Santi e Naviganti’ secondo me è una triade perfetta che sintetizza la Sicilia e la trascina poi in tutti i brani dell’album. ‘Amanti’, perché la Sicilia è una terra in cui le serenate d’amore hanno sempre trovato sfogo, amanti di bellezza, amanti legati ai canti contrastati. Il sistema della tradizione popolare è permeato di canti sulle serenate. È un inno all’amore tout court.

‘Santi’ perché sono sempre stato affascinato dai riti religiosi, di festa, dove c’è una commistione tra sacro e profano. Penso alla Festa dei Giudei a San Fratello, o alla Festa del Muzzuni ad Alcara Lu Fusi; queste feste dionisiache, i riti propiziatori legati alla terra, alla mietitura, mi hanno sempre colpito.

‘Naviganti’ perché da sempre siamo un popolo di naviganti, di gente che parte e fa ritorno, ma anche naviganti d’amore, naviganti come i pescatori, a cui dedico proprio un brano con questo titolo. Naviganti come i migranti che cercano salvezza attraverso il mare, di cui parlo nel brano ‘Terra’.”

Sentendo proprio la canzone “Naviganti”, il tuo primo brano edito di questo disco, è tangibile la spiritualità, la preghiera al mare e soprattutto si ha la sensazione di iniziare un viaggio sotto la benedizione dei Santi. Cosa ti ha spinto a scriverlo?

“Questo racconto mi toccava personalmente. La spiritualità è una cosa che mi appartiene molto. Ho voluto dedicarmi a questo aspetto dedicando un canto devozionale ai pescatori, in particolare ai raccoglitori di corallo. Nel Golfo di Sciacca, molto tempo fa, c’era tantissimo corallo. Scendevano i pescatori di Napoli e si incontravano con i pescatori di Sciacca. In queste occasioni si creavano commistioni di linguaggi, di dialetti, di vocaboli e uscivano fuori delle canzoni meravigliose.

Ho rielaborato un testo della tradizione, ne ho voluto prendere un pezzo e metterlo proprio all’inizio del brano, con questi vocalizzi che alludono alla lingua partenopea. Sono le antiche ‘cialome’ (i canti di mare), delle invocazioni religiose, dei riti devozionali che si trovano in tanti testi che ho studiato e poi rivisitato in chiave contemporanea.”

 Un album che intreccia diversi generi musicali (folk, world music, pop, jazz). Qual è stata l’ispirazione per la composizione dei brani? Hai avuto dei riferimenti, qualcosa del tuo vissuto?

“Questa è una bella domanda! Quando mi sono cimentato a scrivere il nuovo disco ho voluto fare un riassunto del mio vissuto, del mio bagaglio musicale. Non potevo non fare riferimento a generi che mi hanno coinvolto emotivamente, penso alla world music di Peter Gabriel, a quella di Enzo Avitabile, di Eugenio Bennato, del Maestro Ambrogio Sparagna con cui ho l’onore e il piacere di collaborare. Mi sono rifatto a loro, ma solo sfiorandoli, tornando poi nel mio. Passo dal folk alla world, al progressive degli anni ’70-’80, ma vado anche sul pop e sul jazz. Sono tutti generi che ho sempre ascoltato e che mi appartengono.”

Il brano “Donna Gintili” ha anticipato invece l’uscita dell’album. Cosa racconta e come nasce?

“È un brano che vede la meravigliosa partecipazione di un’amica, Oriana Civile, una voce a cui ho subito pensato quando l’ho scritto. ‘Donna Gintili’ è una serenata che diventa al tempo stesso un canto di spartenza, perché ho immaginato una persona che emigra in America e scrive questa lettera alla propria amata, facendo un viaggio a ritroso nel passato vissuto insieme. La donna risponde sul finale con una quartina meravigliosa: ‘Garofanu d’America vinitu / ‘nta la tistuzza mia fusti chiantatu / varda quanta pacienzia ch’aiu avuto / sira e mattina l’aju abbiviratu’, che fa parte della tradizione e che ho inserito perché è davvero esaustiva. L’amata fa prevalere alla fine l’amore al distacco. Ho scelto l’immagine del garofano perché nella tradizione siciliana simboleggia se bianco la purezza dell’amore, se striato l’amore contrastato.

Il titolo mi è venuto casualmente pensando a Dante Alighieri e al suo amore per Beatrice e ho rinvenuto questa espressione ‘donna gintili’ nel Convivio. Siccome un anno fa, quando ho scritto il brano, ricorreva il settimo centenario della sua morte, ho pensato di rendere questo omaggio al Sommo Poeta.”

Nel 2014 all’Argimusco – in occasione della presentazione del DocuFilm “Attraversando il bardo: sguardi sull’aldilà” di Franco Battiato – lei e i Cantori galatesi avete eseguito insieme ai Monaci tibetani il brano “U Cuntu” scritto da Battiato. Cosa le ha lasciato in eredità questo incontro con il Maestro?

“Una delle esperienze di cui vado più fiero e orgoglioso. Abbiamo avuto l’occasione di organizzare questo mio coinvolgimento con i Cantori. Battiato ha scritto questo libro e ha voluto che interpretassi questo brano, ‘U Cuntu’, che ho eseguito con i Cantori insieme al ‘Salve Regina’, un canto spirituale. Lui voleva unire la spiritualità d’oriente e quella d’occidente, unendo noi con i Monaci tibetani. Alla fine mi ha abbracciato e ringraziato, mi ha chiesto come ho fatto ad unire queste persone di una certa età – i Cantori hanno tra i 70 e gli 83 anni, ed erano felici come dei bambini! –. Mi ha detto: ‘sei un essere speciale’. Io ero emozionatissimo. Sono quelle grandi persone che lasciano il segno.

 Tornando alla musica popolare, secondo te possiamo considerare salvo il patrimonio dei canti della tradizione?

“È un problema che mi ha sempre frastornato perché credo che ad oggi, ciò che è stato raccolto esiste. Ci sono antropologi e professori universitari che studiano e che tramandano. Una volta che non ci saranno più queste persone, purtroppo vedo buio. Io ad esempio volevo garantire una sorta di ricambio generazionale con i Cantori e cercavo giovani che si avvicinassero al canto tradizionale. Beh, ho fatto fatica. Non so fino a che punto si possa riuscire. Per quanto mi riguarda attraverso l’uso della lingua siciliana nella musica cerco di recuperare un’appartenenza, perché non faccio altro che riproporre la tradizione, parto da lì. È importante l’identità, partire dalle proprie radici, con uno sguardo poi alla contemporaneità. In questo faccio la mia parte, ma credo sia difficile garantire la salvezza di questo patrimonio.”

Hai altri progetti adesso?

Si, c’è già in cantiere il tour, dovremmo partire con alcune date. Avrei già dovuto fare un concerto in teatro a Formia, in provincia di Latina, questo 19 febbraio, ma è stato annullato. Mi auguro che si possa ripartire! Il mio ultimo live risale a febbraio 2020 ai Cantieri Culturali della Zisa a Palermo, è stato uno dei concerti più seguiti all’interno della rassegna Sponde Sonore. Poi la scorsa estate un concerto a Formia al Festival dei Teatri d’Arte Mediterranei, al Convento dei cento archi di Ficarra e un altro al Monastero di San Filippo di Fragalà. Pochi, ma in location splendide. Io sono un animale da palcoscenico, mi nutro del palco, della gente che ci lavora, dei musicisti, del pubblico, quindi mi manca tutto questo. Non vedo l’ora di farvi ascoltare il nuovo album anche dal vivo!”

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