Festa della Montagna, a Galati Mamertino si fa “scuola di pane”

di Giuseppe Salerno
11/11/2017

Per millenni l’uomo si è cibato di pane, alimento capace di fornirgli energia, fibre, minerali e vitamine. Ma alla fine dell’Ottocento, con l’introduzione di mulini con rulli di acciaio capaci di agevolare la separazione del chicco dagli strati esterni, la farina bianca risultò più conveniente. Da allora, progressivamente, prese il posto di quella integrale, grazie anche al fatto di conservarsi a lungo senza irrancidire. Sembrava un progresso, ma, di fatto non lo è stato.

In occasione della Festa della Montagna, a spiegarlo ai ragazzi delle scuole elementari e medie di Galati Mamertino ci hanno pensato Antonio e Fabiola Lazzara dell’Antico Antico Mulino a Pietra di Longi nel quale, dalla molitura del grano duro siciliano di coltura biologica, prendono corpo le farine dal profumo autentico ed a granulometria irregolare, ricche di crusca e con la totale conservazione del germe, parte più nobile e saporita del seme, dalla cui lavorazione nasce un pane dal profumo intenso e dal sapore genuino.

Una vera e propria lezione sul grano, con tanto di rappresentazione della panificazione in casa, passaggio per passaggio, da parte delle attempate massaie galatesi che, in un recente passato, preparavano il pane ottenuto dalla semola del grano, lievitato con il lievito madre ricavato dal pane in pasta inacidito, che le casalinghe conservavano ad ogni panificazione abitualmente in una tazza di terracotta. La genuinità di quegli ingredienti, unita all’abilità delle donne, davano al pane quella fragranza, quella bontà che, ancor oggi, in alcune famiglie galatesi è possibile assaporare. La panificazione si ripeteva regolarmente ogni 15 giorni, una volta la settimana nelle le famiglie più numerose; un forno a legna, generalmente, poteva contenere fino a dodici pani e per prepararne una quantità maggiore si ricorreva ad una seconda infornata con il forno che ormai aveva perso la temperatura ottimale e per questo motivo la crosta appariva più chiara . La bontà del pane dipendeva dalla farina, derivata dall’ottima qualità del frumento, passato a vaglio nel setaccio ma ciò non era sufficiente perché la buona riuscita dipendeva anche dalla bravura della massaia nell’impastare, nell’ispezionare la lievitazione, nel determinare la temperatura del forno e nel controllare la cottura. Le operazioni della panificazione avevano inizio ancor prima dell’alba con le massaie che indossavano il grembiule e legavano un fazzoletto in testa per contenere i capelli. Si procedeva a prendere la farina dai sacchi di olona o dall’apposito contenitore di legno e a separarla dalla crusca con il crivello (crivu). La farina setacciata, quindi, si metteva nella madia (maidda) e si formava una conca all’interno della quale si versava acqua tiepida, un pizzico di sale e si aggiungeva “u criscenti”; giunto il momento di impastare ogni donna non dimenticava mai di fare il segno della croce. Poi si impastava “pugnando” la pasta spostando il corpo in avanti in modo da concentrare il peso sui pugni chiusi. Le casalinghe, quindi, cospargendo un po’ di farina su una spianatoia  iniziavano “a ‘mpanari”, ovvero formavano pagnotte ; le sistemavano, poi, su un’apposita tavola a riposare, operazione nota come “mettiri ‘u pani ndò lettu” e con il coltello su ogni pane segnavano una croce. Le pagnotte si coprivano con una o più coperte in modo tale da assicurare il calore necessario per una buona lievitazione. Durante questo processo il pane in pasta veniva controllato e alle massaie bastava uno sguardo per capire a che punto fosse la lievitazione che giungeva a compimento quando la pasta era rigonfia e sulla superficie cominciavano a comparire delle crepe. Le donne, per sicurezza, pungevano il pane con una forchetta e dalla consistenza capivano se era “maturo”. Intanto mentre era in corso il processo di lievitazione, si accendeva il forno e si procedeva a “fari ’u furnu”, con ramaglie di legna disposta a fasci provenienti dagli scarti della potatura degli ulivi e della vite (sarmenta). La temperatura ottimale veniva raggiunta quando i mattoni della cupola, raggiungendo un’elevata temperatura, diventavano bianchi. Il forno veniva ripulito con un rastrello dal carbone e spazzolato con una scopa tipica, di ampelodesmo o foglie di palma nana, per rimuovere le ceneri dal pavimento del forno. Giungeva quindi il momento di infornare il pane, lavoro che le massaie sbrigavano con prontezza, sollecitudine e coordinazione: si ponevano le pagnotte sulla pala di legno infarinata, con la quale si accompagnavano i pani da cuocere dentro il forno, e, con un movenza lesta, ma delicata al tempo stesso, lasciati scivolare sul piano cottura e si chiudeva l’accesso al forno con uno sportello leggero amovibile. La cottura richiedeva circa un’ora, ma durante questo tempo il forno veniva riaperto diverse volte per controllare lo stato di cottura dell’alimento. Il pane veniva sfornato quando le sfumature cominciavano ad apparire dorate, la crosta ruvida ben cotta e il profumo, unico e inconfondibile, invadeva l’ambiente risvegliando i sensi.

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