Chi si ammala di Leishmaniosi non si ammala di Alzheimer

di Turi Milano
09/05/2020

La leishmaniosi è una malattia infettiva e contagiosa causata dal parassita Leishmania Infantum trasmesso dalla puntura di piccoli insetti, i flebotomi (pappataci), che in Italia sono generalmente più attivi da maggio a ottobre. È una malattia cronica grave, che colpisce particolarmente i cani e provoca in loro danni progressivi.

Negli ultimi dieci anni si è registrato un aumento di diffusione della malattia, dovuto alle variazioni climatiche ma, soprattutto per l’abitudine di vivere in simbiosi con gli amici a quattro zampe. Ed è così che, essendo la leishmaniosi una zoonosi, negli ultimi anni si è registrato un aumento della percentuale di trasmissione della malattia dall’animale all’uomo. Ma, come recita una vecchio adagio, non tutti i mali.

Pare che tra la nota infezione parassitaria leishmaniosi e il Morbo di Alzheimer ci sia incompatibilità. Chi si ammala leishmaniosi non si ammala di Alzheimer, la patologia neurologica degenerativa che colpisce il cervello, conducendo progressivamente il malato a uno stato di totale dipendenza, creando quindi una situazione molto complessa e difficile per la famiglia che lo deve assistere.

Questa scoperta è stata l’oggetto di analisi di una ricerca italiana condotta dall’Università degli Studi di Milano in collaborazione con la Fondazione Don Gnocchi. Lo studio dettagliato è stato pubblicato dal New York Times in questi giorni. Già qualche anno fa il ricercatore Ben Trumble dell’Università dell’Arizona si accorse che nel popolo Tsimane, un’antica tribù storicamente insediata nella giungla boliviana, non era presente alcun segno di Alzheimer. Questa scoperta risultò sorprendente considerando che molti esponenti di questa popolazione possiedono il gene dell’Alzheimer. Chiamato ApoE4, espone a un’elevata possibilità di sviluppare questa patologia neurodegenerativa.

È un gene che trasforma il metabolismo dei lipidi nei neuroni riducendo l’attività del sistema di difesa cerebrale, chiamato microglia. Ben Trumble scoprì che erano alcune infezioni parassitarie a non consentire al gene del Morbo di Alzheimer di svilupparsi nel sistema cerebrale di questa antica tribù. Queste infezioni interessano il 70% circa dei membri di essa. Dalle sue accurate ricerche emerse che chi ha contratto un’infezione di questo tipo ha maggiori probabilità di mantenere intatta la propria salute mentale, nonostante la presenza di una o due copie del gene ApoE4. Chi, al contrario, è riuscito a schivare l’infezione parassitaria e ha la variante genica ApoE4 va incontro ad un graduale declino cognitivo.

È quello che succede attualmente alle persone dei Paesi industrializzati. È stato lo studio di questo ricercatore americano a stimolare la ricerca condotta recentemente dall’Università degli Studi di Milano in collaborazione con la Fondazione Don Gnocchi. Lo studio in questione si è occupato di verificare nel concreto la possibilità che un’infezione parassitaria in particolare, quella causata dalla Leishmania infantum, potesse essere d’ostacolo alla malattia di Alzheimer. Il Leishmania infantum è un parassita endemico, molto diffuso in Amazzonia. È in grado di mietere vittime sia tra gli animali che tra gli uomini.

La malattia è solitamente causata da un protozoo che si trasmette frequentemente al cane attraverso la puntura di un insetto, il pappatacio (Phlebotomus perniciosus). È noto anche come “mosca della sabbia”. Di fatto assomiglia ad una piccola zanzara, sia per l’aspetto affusolato che per il fatto che punge succhiando sangue. I ricercatori italiani hanno scoperto che questa malattia parassitaria inibisce effettivamente i meccanismi infiammatori dei neuroni del cervello. Questa scoperta è importante per la comunità scientifica perché potrà servire per creare farmaci immunomodulatori derivati dai parassiti che generano la malattia parassitaria.

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